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1.3. La tesi dei ‘ciclica’ e la tesi del ‘sistema aperto’
La Produzione indipendnete di Musica elettronica - tesi di laurea in Sociologia della Comunicazione

 

Il dibattito sulle caratteristiche della struttura e delle dinamiche dell’industria discografica si è raccolta intorno a due interpretazioni principali. La prima è stata sviluppata attraverso un’analisi empirica dei dati di vendite e delle caratteristiche delle musiche prodotte dal sociologo dell’organizzazione e della cultura Richard Peterson [Peterson e Berger, 1975] ed è definita ‘tesi dei cicli’. Quest’interpretazione sostiene che nel mercato discografico lunghi periodi di concentrazione dell’offerta in poche grandi compagnie discografiche si alternano a brevi periodi di concorrenza e diversificazione, in cui nuovi piccoli soggetti muovono il cambiamento musicale.

La seconda interpretazione, proposta dal sociologo Timothy Dowd [2000], è definita come tesi del ‘sistema aperto’ e sostiene che a partire dal 1955 un alto tasso di concentrazione del mercato ha convissuto con un alto grado di diversificazione e innovazione delle musiche prodotte. I motivi che avrebbero mutato, a partire grosso modo dal 1955, questo cambiamento risiedono nel passaggio, da parte delle grandi compagnie discografiche, da un tipo di organizzazione della produzione burocratico e centralizzato ad uno decentrato e più flessibile.

Peterson e Berger, in un classico articolo intitolato Cycles in symbolic production: the case of Popular Music [1975] hanno tentato di chiarire la relazione tra la concentrazione del mercato discografico, l’omogeneità dei prodotti di questo mercato e le variabili che intervengono su questi elementi. Elaborando le classifiche dei singoli più venduti negli USA tra il 1948 e il 1973, i due ricercatori hanno calcolato i coefficienti di concentrazione del mercato e li hanno messi in relazione con coefficienti d’innovazione e diversità, anch’essi calcolato sui singoli più venduti e relativi alla percentuale di nuovi artisti e alle forme musicali.

Mettendo in relazione questi dati, i due ricercatori nordamericani giunsero a due conclusioni. In primo luogo, essi constatarono che il grado di diversità delle forme musicali era, per il periodo considerato, inversamente correlato con il grado di concentrazione del mercato discografico. In secondo luogo, rilevarono che l’andamento del mercato discografico era caratterizzato da un andamento ciclico, cioè che lunghi periodi di graduale incremento della concentrazione del mercato e dell’omogeneità della produzione si alterna a brevi periodi contraddistinti da una forte competizione e da una creatività musicale più accentuata [Peterson e Berger, 1975, 56]. Secondo i dati elaborati, dal 1948 al 1955 la struttura del mercato discografico presentava una fortissima concentrazione dell’offerta ed era caratterizzata per ciò che riguarda gli stili musicali da una generale omogeneità, improntata sullo stile dei cosiddetti cantanti crooners. Intorno al 1955 si registrò un breve periodo di competizione e innovazione: le grosse compagnie che dominavano il settore persero consistenti fette del mercato a favore di nuove imprese e si imposero nuovi generi, in primo luogo il rock‘n’roll. Inoltre, il mercato nel suo complesso registrò un aumento di vendite considerevole [ibidem, 147-150]. A questo periodo ne seguì un altro, descritto come di consolidamento, dal 1959 al 1963, in cui le grandi compagnie riuscirono, ristrutturando e reindirizzando le proprie attività, a recuperare percentuali del mercato e a consolidare questa tendenza [ibidem, 150-151]. Successivamente, in coincidenza col fenomeno Beatles e del rock psichedelico californiano, si registrò un nuovo periodo di sviluppo, comunque non accompagnato da una diminuzione del tasso di concentrazione, che anzi seguì ad aumentare leggermente tra il 1964 e il 1969, per poi segnare un’impennata nella prima parte degli anni ’70 [ibidem, 152-155].

Questa teoria dei cicli ha prodotto un ampio e non ancora concluso dibattito, sviluppi e molte osservazioni critiche. Come fa notare Dowd [2000, 232], i due ricercatori hanno negli anni seguenti continuato ad applicare il loro schema con molta cautela, poiché il grado di relazione tra concentrazione e diversificazione s’indeboliva con passare degli anni. In effetti, la corrispondenza più forte tra l’interpretazione proposta e i dati rilevati è quella relativa ai mutamenti del mercato degli anni ’50, mentre nei periodi successivi il collegamento appare molto meno chiaro, considerando soprattutto che il tasso di concentrazione del mercato riprende a crescere a partire dal 1964 senza più riscontrare flessioni [Peterson e Berger, 1975, 142]. A quindici anni di distanza dall’articolo in questione, Peterson [1990] provvede a dare un’interpretazione dell’avvento del rock‘n’roll attraverso la prospettiva di ‘produzione della cultura’ da lui stesso elaborata. In questo caso Peterson tende ad interpretare le dinamiche del periodo più nelle specificità storiche, musicali, imprenditoriali e tecnologiche del periodo piuttosto che come il risultato fisiologico di una ciclicità del mercato dell’industria discografica [Peterson, 1990, 114]. 

Un’altra critica portata a quest’interpretazione ciclica è d’ordine metodologico. Secondo Dowd, il concetto di diversificazione è affrontato in modo ingenuo poiché confonde la diversificazione della produzione, dell’offerta, e la diversificazione musicale[1]. Nella ricerca criticata si predilige il primo tipo e si trascura l’analisi dei contenuti musicali, ad esclusione di un breve e sbrigativo accenno al contenuto letterale dei testi, senza alcuna considerazione per valori di tipo musicale [Dowd, 2000].

Un'ulteriore critica mossa alla tesi dei cicli è quella di Michael Christianen. Egli sostiene [Christianen, 1995] che la ricerca di Peterson e Berger, nonché ricerche successive d’altri autori che utilizzavano un approccio similare, fosse inaffidabile per il tipo di selezione dei dati disponibili. La fonte di dati costituita dai primi 10 singoli più venduti considera solo “la punta dell’iceberg della produzione, riferendosi solo ad una parte molto piccola della musica disponibile per i consumatori” [ibidem, 56]. Questo fa sì che le conclusioni tratte riguardo la diversificazione in rapporto alla concentrazione possano essere valide solo per ciò che riguarda la musica da hit parade. Insomma, sostiene Christianen, le ricerche precedenti parlano di aumento o diminuzione della diversità, ma solo per ciò che riguarda i prodotti musicali che hanno raggiunto le vette delle classifiche di vendita, vale a dire che hanno superano ben tre filtri presenti nell’industria musicale, quello delle compagnie che devono accettare la musica, quello dei media che devono dare intensa visibilità, e quello del pubblico che deve comprare i dischi di modo che arrivino nei primi 10 posti in classifica [ibidem]. Christianen propone un altro modello, che ha l’indubbia novità di utilizzare come fonte non le classifiche di vendita, ma l’intera discografica disponibile in commercio in Olanda tra il 1975 e il 1992, per un totale di 180.000 dischi. Le conclusioni di Christianen però non sono dissimili da quelle di Peterson e Berger. Infatti, viene riscontrato per il periodo relativo una relazione inversa tra concentrazione del mercato e diversità e innovazione [ibidem, 91]. Per ciò che riguarda le tendenze dell’ultimo periodo analizzate, Christianen sostiene di constatare un aumento del grado di competizione del mercato insieme ad un aumento di innovazione e diversità musicale [idibem]. Il ricercatore non tralascia di segnalare comunque che la ridefinizione della struttura delle grandi compagnie discografiche “all’interno delle quali vi sono un ampio numero d’unità produttive di lavoro semi-indipendenti e in competizione tra loro” è un fattore che ridefinisce il concetto stesso di concentrazione del mercato [ibidem].  

La seconda interpretazione dello sviluppo dell’industria discografica è quello definito del ‘sistema aperto’. Alla base di quest’interpretazione vi è la convinzione che il 1955, invece di essere un momento congiunturale, espressione di una ciclicità del mercato, fu testimone di un mutamento strutturale dell’industria che portò alla revisione delle strategie e delle pratiche da parte delle maggiori imprese presenti sul mercato discografico. “Il sistema aperto è comparso nel 1955, quando le major si volsero alla produzione decentrata en masse. Ogni major inizialmente adottò la produzione decentrata per emulare il successo delle indipendenti, diversificando quindi la gamma di prodotti musicali. Di conseguenza, l’impatto della concentrazione sulla diversificazione mutò decisamente dal momento che le major adottarono una nuova logica di produzione” [Dowd, 2000, 235]. Questo cambio dell’indirizzo strategico adottato dalle major, rendendole più flessibili e attente al mercato grazie ad una ridefinizione della struttura organizzativa, ha trasformato la struttura del mercato. Il forte tasso di concentrazione del mercato pre-1955 aveva condotto ad un’omogeneità delle musiche prodotte e una tendenza al conservatorismo delle poche imprese che controllavano l’intero mercato. A partire dal 1955 si avvia invece, secondo Dowd, un processo di ridefinizione del mercato che porterà ad un costante incremento della differenziazione musicale accompagnata da un lento ma costante processo di riconcentrazione del mercato nelle mani delle grandi compagnie.

Per giungere a queste conclusioni Dowd rielabora il concetto di diversificazione, al fine di rendere conto della sua maggiore complessità, e analizza su questa base concettuale un campione casuale di 110 canzoni numero uno in classifica, cioè un campione di circa il 15% di tutte le hit numero uno tra il 1955 e il 1990 [Dowd, 2000, 243]. L’ipotesi confermata attraverso i dati è che “durante l’era della produzione decentrata la diversificazione musicale si è potuta sviluppare in presenza di alta concentrazione” [ibidem, 248].

Entrambe queste ipotesi hanno valore interpretativo rispetto agli andamenti del mercato discografico e, in effetti, è verosimile immaginare una struttura ‘mista’ del mercato. Infatti, per un verso è condivisibile che i mutamenti avvenuti intorno al 1955 abbiano prodotto dei cambiamenti strutturali nel mercato discografico, a partire dalla trasformazione delle industrie in soggetti più flessibili e pronti a recepire i mutamenti della domanda. L’offerta si presenta così meno sensibile a bruschi mutamenti intervenuti nei fattori che danno forma al mercato [cfr. Peterson, 1990] e per questo si presenta più stabile. Per un altro verso, il mercato rimane comunque soggetto sia a trasformazioni che si presentano periodicamente a partire da mutamenti delle legislazioni che costituiscono la cornice d’azione alle imprese, sia agli sviluppi tecnologici che offrono nuovi strumenti e nuovi mezzi con cui affrontare il mercato. Christianen presenta, come abbiamo già accennato, un esempio legato all’introduzione del formato cd sul mercato verso la metà degli anni ’80. In seguito all’introduzione di questo nuovo formato, le major hanno per qualche anno concentrato la loro attività sulla ristampa dei cataloghi esistenti su disco e cassetta, che garantivano, tra le altre cose, ricavi maggiori rispetto all’elaborazione di nuovi progetti. Trascurando la ricerca di nuovi talenti e di nuovi stili le multinazionali hanno perso terreno nei confronti di produttori più piccoli che hanno invece guadagnato spazi attraverso la ricerca e lo sfruttamento di nuovi musicisti [Christianen, 1995, 91]. Questo frangente della storia dell’industria discografica ha le caratteristiche di ciò che Peterson e Berger definiscono come “breve periodo di innovazione e differenziazione”, però appunto la maggiore elasticità delle grandi compagnie ha permesso loro di non subire pesanti ripercussioni sulle proprie fette di mercato come successe negli anni dell’avvento del rock’n’roll, ma di reagire prontamente alla nuova situazione. Infatti, agli inizi degli anni ’90 le multinazionali concentrarono nuovamente le proprie strategie in direzione dello sfruttamento di talenti emergenti dall’area del punk-rock indipendente, fenomeno che costituisce la novità discografica degli anni ’90, vale a dire l’incorporazione della scena indipendente statunitense nel mercato mainstream[2], di cui esempio emblematico è il caso discografico del gruppo Nirvana[3].



[1] Dowd [2000, 237-238] distingue tra diversificazione nell’offerta, che si rileva attraverso il numero annuo di incisioni di successo; diversificazione nella produzione, che si rileva attraverso la percentuale di incisioni di nuovi artisti, e diversificazione musicale, con cui  invece egli intende la differenza tra elementi pertinenti agli elementi musicali tout-court.

[2] Per mercato mainstream intendiamo ciò che a volte è chiamato mercato ‘pop’, vale a dire il mercato generalista dell’industria discografica statunitense, così come in Dowd [2000, 226, nota 4]. Sull’utilizzo del termine mainstream nelle ricerche sulla popular music si veda in particolare Thornton [1998, 119-154]. Thornton conclude comunque che “qualunque sia il suo esatto statuto, il mainstream è un concetto inadeguato per la sociologia della cultura. I riferimenti al mainstream sono spesso un modo di declinare questioni relative alle definizioni e rappresentazioni di gruppi sociali empirici” [p. 150]. Aderendo a questa interpretazione, in questo lavoro il termine è utilizzato in maniera generica e non specifica.

[3] Il gruppo dei Nirvana, di tradizioni punk, che suona nei locali della propria città, Seattle, pubblicò il primo disco su una piccola etichetta indipendente di Seattle, la Sub Pop, nel 1989, in poche migliaia di copie. Due anni dopo la Sub Pop viene rilevata da una semi-major, la Geffen. Il secondo disco del 1991, Nevermind, conquista tra lo stupore dell’industria discografica il disco d’oro in un mese, e arriva a vendere in breve tempo svariati milioni di copie. “Fu in seguito all’inaudito successo di quell’album che multinazionali del disco volsero la loro rapace attenzione all’underground” [Cilia, 1999, 6].

 

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